La Signora sosteneva che i generali, se sfidati apertamente, avrebbero potuto organizzare un nuovo golpe ai danni di tutto il popolo. Così, mentre l’Onu dichiarava che contro i musulmani Rohingya era in corso «una pulizia etnica, un genocidio», la donna che aveva sopportato quindici anni di arresto, fino al 2010, diceva che quello dei «profughi del Rakhine (oltre 700 mila costretti alla fuga, ndr) era «solo uno dei molti problemi, sui quali bisognerà indagare senza distogliere l’attenzione dall’obiettivo più grande». Era giustamente stata accusata di ipocrisia e insensibilità l’ex Premio Nobel per la Pace. Alla fine, il suo equilibrismo è fallito.
I burattinai in uniforme hanno deciso di recidere la corda quando il risultato delle elezioni tenute a novembre minacciavano di metterli ai margini del potere. Hanno arrestato Suu Kyi, togliendo al mondo e presumibilmente anche a lei l’illusione che i generali potessero stare al gioco della «democrazia imperfetta». Ora si accumulano le condanne internazionali. Dagli Stati Uniti all’Onu. Ma i generali del Myanmar sono abituati a tirare diritto, ascoltando solo la voce del loro interesse di parte, che è quello di mantenere il potere, sfruttando le divisioni internazionali. A gennaio il ministro degli Esteri cinese Wang Yi era stato in visita nel piccolo Paese. Pechino, al solito, è interessata solo alla «stabilità» anche quando è un esercito a imporla con i fucili. Che cosa succederà ora? La copertura di Suu Kyi è caduta, la vecchia combattente non si piegherà a un nuovo compromesso. «Il nostro è un Paese già in guerra con se stesso, pieno di armi, con milioni di persone in lotta contro la fame, un popolo diviso da spaccature etniche e religiose, il futuro è buio», dice lo storico Thant Myint-U.
1 febbraio 2021 (modifica il 1 febbraio 2021 | 10:55)
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